La prima parte del capolavoro di Karl Marx ha enorme importanza per comprendere il mondo sempre più ingiusto e irrazionale in cui siamo ancora condannati a vivere. Alla luce di quanto segue – certo noto ma per questo non sempre realmente conosciuto – appare evidente, a chiunque non sia interessato a vivere dello sfruttamento del lavoro altrui, la necessità di organizzarsi per consentire l’affermazione di un modo di produzione maggiormente razionale.
di Renato Caputo
Nel primo libro de Il capitale Marx muove da una constatazione, un dato di fatto di per sé evidente, secondo il noto principio alla base del moderno metodo scientifico elaborato già da Cartesio: la ricchezza delle società in cui domina il modo capitalistico di produzione si presenta come un’immensa raccolta di merci. A chi, abituato oggi a vivere da sempre in una società a capitalismo avanzato, non apparisse altrettanto immediatamente evidente, provi a considerare una società in cui il capitalismo non si è ancora affermato, a certi paesi dell’africa subsahariana ad esempio. La singola merce può, perciò, essere considerata la cellula del modo di produzione capitalistico.
Il duplice valore della merce
Ma, come sappiamo da Hegel, ciò che appare evidente spesso non è realmente conosciuto, in effetti la merce ha una struttura complessa, che non si manifesta altrettanto immediatamente, ma richiede una riflessione e una certa capacità di astrazione. La struttura duplice della merce è, in effetti, quella propria della Logica hegeliana dell’essenza e non quella semplice della Logica dell’essere. La merce, come aveva già intuito Aristotele, è in primo luogo, nel suo darsi immediato, un oggetto formato dal lavoro umano con il fine di soddisfare bisogni umani (sia di natura materiale, quindi, che spirituale), e questo è il suo valore d’uso che si realizza consumandola (ad esempio la merce fucile si consuma sparando, la merce Bibbia edificandosi). D’altra parte le merci, in quanto prodotto sociale, hanno allo stesso tempo un valore di scambio, che corrisponde alla loro essenza. Tale valore, a differenza di quello d’uso che nella sua immediatezza ricade nella categoria della qualità, si esprime in un più complesso rapporto quantitativo, il che è essenziale dal momento che, come sosteneva già Galileo, ciò rende possibile una misurazione oggettiva, valida universalmente e, quindi, scientificamente determinabile, mentre il momento qualitativo del valore d’uso cambia da consumatore a consumatore, a seconda dei gusti, ma come è noto De gustibus non est disputandum, proprio perché siamo in un ambito soggettivo.
Proprio per questo nelle società moderne come la capitalista, dove questo aspetto diviene determinante, al capitalista interessa unicamente il valore di scambio di quanto produce, anzi l’investitore generalmente non sa neanche bene, né è realmente interessato a conoscere in cosa investe, in quanto mira unicamente al rendimento che tale investimento può garantirgli, tanto più che come sosteneva già Vespasiano Pecunia non olet. Dunque, il valore di scambio determina la proporzione secondo cui due merci, a prescindere dai loro valori d’uso che possono essere i più differenti, possono essere scambiate. In tale caso bisogna astrarre completamente dal giudizio qualitativo che i diversi soggetti possono dare del valore d’uso delle merci, perché ciò che preme è la possibilità di scambiarle nel modo più rapido e pratico possibile, tanto più che nelle società moderne, per soddisfare bisogni che tendono a raffinarsi, ogni individuo tende a specializzarsi nella produzione di una sola merce, mentre poi per vivere ha bisogno di scambiarla con quelle che producono altri. Ecco così che astraendo dal valore d’uso e guardando al puro aspetto quantitativo del valore di scambio posso determinare il valore di un fucile come equivalente a quello, ad esempio, di cinque Bibbie.
Affinché tale scambio sia possibile, anzi si realizzi nel modo più rapido, visto che non si tratta di un’attività produttiva – e nella società capitalista il tempo diviene sempre più denaro – bisogna stabilire la proporzione che rende possibile lo scambio di merci apparentemente così diverse. Tale differenza qualitativa che renderebbe le merci incommensurabili è solo immediata, in effetti la riflessione ci porta a cogliere quell’essenza comune che le rende immediatamente scambiabili, determinando la misura dello scambio quale rapporto dialettico fra le qualità e le quantità delle diverse merci. Tale essenza comune, che determina la misura della proporzione dello scambio, non può che essere la fonte comune da cui tutte le diverse merci si sviluppano.
La teoria del valore-lavoro
Qual è, dunque, il fondamento comune che consente di stabilire il valore delle merci mettendole in relazione, ossia misurandole le une con le altre? Per risalire a tale origine identica, al di là di tutte le differenze particolari, occorre riflettere sull’unico elemento che le accomuna tutte: il lavoro umano che le ha prodotte. La grandezza di valore di una merce è data, dunque, dalla quantità di lavoro umano in essa contenuto. Tale è la teoria del valore-lavoro, intuita già da quello che – non a caso – è considerato il padre dell’economia politica moderna, ovvero il grande filosofo scozzese Adam Smith, nella sua celeberrima opera La ricchezza delle nazioni del 1776. Tuttavia, dato il necessario scarto che si realizza nelle complesse società moderne tra il valore della merce, il suo costo di produzione, e il prezzo che se ne realizza sul mercato, Smith aveva fortemente limitato il valore della sua scoperta, confinandone la validità alle società primitive. Si trattava di un errore “provvidenziale” per l’economia borghese, perché con esso veniva meno la stessa possibilità di scoprire il plusvalore, fondamento di quello sfruttamento che determina la sfera della produzione che, a differenza di quella del mercato caratterizzata dallo scambio fra equivalenti da parte di soggetti liberi ed eguali, non appare. Non a caso alle sue soglie è scritto a lettere cubitali: proprietà privata, l’ingresso è vietato a non addetti ai lavori.
La sete di conoscenza doveva portare, il secondo grande esponente dell’economia classica, David Ricardo nel 1817 a superare i suoi stessi limiti di economista borghese, scoprendo che tale legge del valore-lavoro – al di là delle apparenze a cui torneranno a fermarsi gli economisti neoclassici, prigionieri della loro ideologia funzionale ai loro interessi di classe – resta pienamente valida anche per la moderna società capitalista. Tuttavia anche Ricardo non era stato in grado di dare una soluzione scientifica alla fatidica domanda, irrisolvibile per chi non è in grado di assumere uno sguardo straniato rispetto alla società capitalista, ossia data l’equazione valore e tempo di lavoro umano necessario a produrlo da dove provengono quei profitti che sono il reale movente della produzione nelle società di mercato e che producono quel mondo rovesciato dove chi lavora è sempre pericolosamente prossimo alla sfera della povertà, mentre chi non lavora e possiede vive nel lusso più sfrenato, al punto che oggi l’1% che non lavora – se non come hobby – guadagna più del restante 99% che in massima parte o lavora sempre più a ritmi sempre più disumani o è condannato all’inedita dalla precarietà e dalla disoccupazione.
La soluzione all’arcano del plusvalore quale prodotto del pluslavoro
Per risolvere tale arcano vi era bisogno di un grande filosofo politico mosso da ideali comunisti come Marx, che ha potuto guardare in una prospettiva straniata la società capitalista, dal punto di vista più elevato offertogli dalla concezione materialista della storia, che glia ha consentito, infine, di giungere a quella decisiva scoperta, che per sua stessa ammissione costituisce senza dubbio il più importante risultato delle sue decennali ricerche scientifiche: il plusvalore è il prodotto del pluslavoro, ossia dello sfruttamento del lavoro vivo da parte dei possessori in modo monopolistico del lavoro morto (macchine e capitali).
Come mai una scoperta di tale portata non si è immediatamente affermata cambiando il modo di vedere le cose, per cui troppi ancora oggi non vivono come qualcosa di moralmente e razionalmente inaccettabile che singoli grandi proprietari di capitale finanziario, la forma attuale che ha assunto il capitale, concentrano nelle loro mani quantità di ricchezze superiori a intere nazioni, a milioni di uomini, nonostante che il lavoro morto che gli permette di appropriarsi del lavoro vivo di quei milioni di lavoratori sia il prodotto di una vita di lavoro e sacrifici delle precedenti generazioni? Perché oggi siamo giustamente indignanti nei confronti di una casta di politicanti che vivono alle spalle dei contribuenti, ma che per quanto svolgano un lavoro del tutto improduttivo e generalmente dannoso, sono enormemente meno ricchi e parassitari dei grandi proprietari del capitale finanziario che generalmente non svolgono nessunissima attività lavorativa e sono, nonostante ciò, generalmente rispettati?
Ciò dipende dal fatto che non solo la realtà non è mai quella che appare immediatamente, altrimenti la scienza e la filosofia perderebbero di significato come credono gli ignoranti, ma nella società capitalista i rapporti fra gli uomini si presentano in forme del tutto mistificate, che ne celano completamente la reale natura.
Come abbiamo visto, la merce ha un valore d’uso, una differenza qualitativa con le altre merci, e un valore di scambio, una differenza quantitativa con gli altri prodotti del lavoro umano, misurabile appunto in base al tempo necessario per produrli. In tal modo anche il lavoro incorporato nelle merci, che ne costituisce il fondamento comune, ha una natura altrettanto complessa, duplice. Da un lato tale lavoro è volto a produrre un valore d’uso e, perciò, deve essere un lavoro qualitativamente specificato, in quanto tale difficilmente comparabile. D’altro canto, la grandezza di valore di una merce non è data da questo lavoro particolare che la ha prodotta, ma dal lavoro astratto dalle differenze qualitative e, perciò, universamente determinabile in quanto ridotto alla sua sola dimensione quantitativa.
Il lavoro astratto
Per cui il valore di scambio delle merci è basato sul tempo di lavoro socialmente necessario alla loro produzione, che cambia da società a società, da epoca storica a epoca storica. Si tratta, in effetti, di una grandezza variabile sulla base della produttività del lavoro e dello sviluppo tecnologico soggetti a mutamenti temporali e più precisamente storici e sociali. Dati però questi ultimi, il lavoro astratto – che determina il valore di scambio della merce – corrisponde al tempo di lavoro mediamente necessario. Tanto che chi produrrà una stessa merce senza la tecnologia socialmente necessaria in quel momento storico impiegherà una quantità di tempo maggiore, che però non potrà far pesare sul prezzo della merce, altrimenti non sarebbe vendibile in quanto non competitiva con quelle prodotte in tempi più brevi. Allo stesso modo ogni riduzione del tempo di lavoro astratto, storicamente e socialmente necessario alla produzione di una determinata merce, consentirà a chi è in grado di produrla – generalmente grazie a una innovazione tecnica o a una migliore organizzazione e una maggiore divisione del lavoro – potrà realizzare degli extra-profitti, per un tempo necessariamente limitato, dal momento che la concorrenza farà di tutto per apprendere e adottare misure analoghe. Ciò spiega perché tendono a crescere in modo esponenziale le risorse impiegate nello spionaggio industriale, spese altrettanto improduttive di quelle egualmente sempre maggiori dedicate a influenzare i consumatori mediante i messaggi subliminali della pubblicità, spese che potrebbero essere impiegate in modo ben più razionale e socialmente produttivo in una società non più fondata sul monopolio dei grandi mezzi di produzione e riproduzione della forza lavoro accentrati in sempre meno mani.
(continua sul prossimo numero)