A 50 anni dalla morte di Secchia quali insegnamenti per l’oggi?

Da un’iniziativa organizzata dal Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”, dal Centro Culturale “Concetto Marchesi” e dalla Cooperativa Editrice Aurora sulla figura di Pietro Secchia vengono alcune indicazioni per la costruzione di un partito comunista effettivamente altro dal modello della Seconda Internazionale ed effettivamente dei lavoratori.


A 50 anni dalla morte di Secchia quali insegnamenti per l’oggi?

Negli storici locali milanesi della Cooperativa Editrice Aurora in via Spallanzani si è tenuto un interessante convegno, organizzato dal “Centro Studi Domenico Losurdo”, dal Centro Culturale “Concetto Marchesi” e dalla Cooperativa Editrice Aurora sulla figura del partigiano e dirigente del PCI Pietro Secchia a 50 anni dalla sua morte.

Il suo nome, per i più, è legato a una narrazione semplificata che lo vede a capo di una tendenza insurrezionalista minoritaria all’interno del PCI del dopoguerra, il riferimento di quei partigiani che si rifiutavano di deporre le armi dopo la Liberazione e di militanti settari. In realtà, quello che divideva Secchia da Togliatti era una diversa visone strategica cui conseguiva una diversa visione dell’organizzazione del Partito Comunista Italiano. Questa diversità di vedute nel contesto della situazione politica del paese dopo la Liberazione, che condurrà all’estromissione di Secchia dai principali incarichi di direzione del partito, è stata approfonditamente illustrata dai relatori.

“Anche la migliore linea politica, se non vive fra le masse, diviene solo parole.” Con questa citazione ha esordito il coordinatore del dibattito, Vladimiro Merlin, della segreteria nazionale di Cumpanis e del “Centro Studi Domenico Losurdo”. Il suo intervento introduttivo ha cercato di contrastare la lettura prevalente della figura di Secchia, il quale prima dell’emarginazione, avvenuta nel 1954, era responsabile dell’organizzazione e, insieme a Luigi Longo, vicesegretario del partito. Fu in questo suo ruolo che costruì il “partito nuovo” di massa teorizzato da Togliatti, pur sostenendo sempre che un partito di massa, per essere tale, deve dotarsi di quadri.

In realtà, Secchia non proponeva l’insurrezione, anzi cercò di dissuadere i compagni che dopo l’attentato a Togliatti volevano ricorrere alla violenza, ma formulava una critica al deficit di mobilitazione del partito dopo la sua estromissione dal governo e criticava una tendenza a scivolare verso l’elettoralismo e il parlamentarismo. Il partito, secondo lui, doveva essere prima di tutto della classe e organizzato prevalentemente nei luoghi della produzione. Dopo il suo allontanamento dall’organizzazione si innescò invece un processo che gradualmente determinò la scomparsa delle cellule nei luoghi di lavoro e la strutturazione del Partito su base pressoché esclusivamente territoriale. Questo spostamento caratterizzò il partito come “rappresentante dei lavoratori” e non “dei lavoratori”.

A proposito del presunto settarismo, Merlin ha sottolineato che fu proprio Secchia a caldeggiare l’entrata di Serrati e dei “terzini” nel partito e che fu il punto di riferimento di compagni i quali nella CGIL promossero la lotta dei metalmeccanici che preparò l’autunno caldo del ’69 e il successivo processo unitario del sindacato.

In considerazione di questi suoi meriti, alla sua morte fu commemorato da Leo Valiani.

Rolando Giai-Levra, direttore di “Gramsci Oggi” e membro del centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”, ha teso a precisare che non si tratta di commemorare Pietro Secchia ma di assumere il suo contributo ancora vivo e attuale. In merito alla forma partito, devono essere ripresi concetti fondamentali. Per esempio, un partito comunista non può essere costruito secondo le concezioni di alcuni intellettuali illuministi autocandidatisi a rappresentanti dei lavoratori, bensì deve essere organico alla classe dei lavoratori e sua avanguardia. Antonio Gramsci, per esempio, intendeva costruire il partito sulla base della realtà concreta, combattendo sia contro il riformismo sia contro il massimalismo – un partito che doveva essere di massa e di quadri, organizzato sia su base territoriale che di luogo di produzione.

Giai-Levra ha ricordato infine il ruolo di Secchia nel “biennio rosso”, la sua incarcerazione, la successiva partecipazione alla guerra partigiana e il suo monito perché si predisponesse una difesa dell’organizzazione dai noti disegni golpisti ispirati dagli Stati Uniti. Sotto la sua direzione dell’organizzazione il PCI raggiunse il suo numero massimo di iscritti, 2.252.716 nel 1947, con una presenza del 62% di salariati e poi di donne e giovani. Si pose anche il problema, per lui fondamentale, di formare molti quadri intermedi per non approfondire le distanze fra centro e periferia, come scrisse in un articolo su “Rinascita”, e della crescita della diffusione de “l’Unità”. Si tratta perciò di una indicazione fondamentale anche per l’oggi, pur dovendo tenere conto delle trasformazioni nel frattempo intervenute nella società e nel lavoro.

“Qualunque movimento che vuole costruire un partito comunista deve riprendere il contributo di Pietro Secchia e accentuare la critica al parlamentarismo”, questo l’incipit dell’intervento di Gianni Favaro, presidente di Interstampa e membro del centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”, il quale ricorda come fin da giovanissimo il dirigente del PCd’I si spese in modo eroico nella clandestinità e poi nella lotta partigiana. Venne sacrificato sull’altare del mondo che venne disegnato dopo Jalta e che non prevedeva in Occidente la possibilità di una rivoluzione. Secchia, prendendo atto che la rivoluzione non era possibile in quel momento, ammoniva che però era possibile una controrivoluzione. Venendo all’oggi Favaro ha rilevato che i cambiamenti intervenuti nel mondo, il multilateralismo che si va affermando, la messa sotto scacco dell’imperialismo aprono oggi nuove possibilità oggettive per uno sbocco rivoluzionario e tuttavia mancano le condizioni oggettive, mancando un partito comunista. Se Secchia, giunto a Roma, si accorse che essa era ben diversa dal Nord e vi dominavano i parlamentarismi, oggi non c’è più nemmeno quel Parlamento, dopo gli sfregi della seconda Repubblica. Per questo non abbiamo altra prospettiva che quella di aprire un processo rivoluzionario e una decisa lotta di classe per cambiare il modo di produzione.

L’ultimo intervento è stato quello di Fosco Giannini, direttore di “Cumpanis” e segretario del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”. “Capire da dove veniamo è importante, ma in Italia è evidente la rimozione dei nodi della storia del PCI. La vita di Secchia ci aiuta a capirli”: queste le parole di Giannini, che si è soffermato anche sulla vicenda poco nota dell’insurrezione in Grecia, un’azione epica in risposta al massacro inglese dei comunisti greci e che si arrestò alle porte di Atene perché qualcuno disse di tornare indietro a causa degli equilibri internazionali sanciti dagli accordi di Jalta.

Giannini ha sostenuto che il disagio di Secchia per la svolta di Salerno, ispirata da Stalin, fu dovuto alla modalità con cui venne effettuata e all’involuzione politica e organizzativa che ne seguì, e che pertanto il dirigente comunista tentò un correttivo.

In un passaggio della relazione è stato ricordato che nel 1972 Secchia venne chiamato da Allende a tenere un grande comizio in cui avvertì dei pericoli di golpe, e che pochi giorni dopo finì avvelenato dalla CIA.

Giannini ha sottolineato come dal suo esempio dobbiamo ricavare la concezione leniniana e gramsciana del partito, il problema del suo radicamento nei luoghi del conflitto, posto proprio da Lenin, la strutturazione in cellule di produzione posta nelle tesi gramsciane per il Congresso di Lione, l’esigenza di scrivere le cose difficili nella maniera più semplice possibile. Le sezioni territoriali sono il punto d'incontro di vari ceti sociali e “la parlantina degli intellettuali mette in soggezione gli operai i quali tacciono”, scrive Lenin. Esse divengono quindi il luogo della promozione individuale nel partito nelle istituzioni, il fulcro della costruzione di un partito che non è “degli” operai. La formazione di quadri operai è invece per Secchia imprescindibile per l’azione politica. Finché Togliatti fu in vita, nonostante i dissapori con Secchia, le sezioni territoriali convissero con le cellule di produzione, ma successivamente le seconde scomparvero. L’involuzione politico-organizzativa fece da pendant a quella teorica, in una sorta di ritorno alla Seconda Internazionale.

Una nota di disprezzo è stata rivolta da Giannini al libro di Miriam Mafai “L’uomo che sognava la lotta armata”, che caricaturizza Secchia e il suo intento rivoluzionario di tenere aperta la possibilità del socialismo.

Non è possibile riportare qui tutte le considerazioni di Giannini a proposito degli argomenti sostenuti in merito da Bera, Alberganti, Ricaldone e Vaia (il “comandante Alberti”), ma mi sembra importante annotare il suo riferimento agli interventi di Zjuganov e di Tito che criticarono la politica moderata di Togliatti e l’illusione di poter cambiare il paese insieme alla DC.

Tuttavia, ha sottolineato Giannini, non si tratta di demolire Togliatti, come è avvenuto per esempio per Stalin, che è stato demonizzato anziché storicizzato, bensì di assumerlo criticamente nella storia del movimento comunista italiano e internazionale, negli aspetti positivi e negativi del suo operato.

Togliatti, per esempio, credeva che lo sviluppo del capitalismo monopolistico potesse portare a una rivoluzione democratica e perciò cercava forme di collaborazione con la DC ed emarginò l’area più avanzata della Resistenza, fra cui il partigiano Giovanni Pesce, sostituendola con un altro gruppo e un’altra schiera di partigiani. L’amnistia dei fascisti e l’accettazione dei Patti Lateranensi, ricevendo per contropartita la scomunica dei comunisti, furono una conseguenza di questa convinzione. Così come le riforme di struttura derivarono da questo progetto politico che però si indebolì all’interno delle istituzioni. Lenin e Gramsci condussero una lotta antipositivista. Secchia fu un erede di questa lotta e del rifiuto di essere subordinati allo stato di cose presenti.

Alle relazioni è seguito un breve ma vivace dibattito in cui si sono potute approfondire alcune questioni, in particolare quelle legate all’attualizzazione del pensiero di secchia nell’attuale contesto del mondo del lavoro, sollevate fra l’altro dalla prestigiosa compagna Nunzia Augeri.

06/10/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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