La battaglia per il NO nel prossimo referendum costituzionale per difendere gli spazi di rappresentanza democratica deve unirsi alla denuncia del massacro sociale già in atto e che sarebbe ancor più favorito dall’ulteriore riduzione delle possibili voci di opposizione. Soltanto unendo questi due momenti in una stessa prospettiva si può aprire da qui al prossimo autunno una nuova stagione politica.
di Bruno Steri
Le due importanti assemblee tenutesi gli scorsi 11 e 30 gennaio su chiamata del Comitato per il No nel referendum costituzionale hanno visto salutarmente riunite pressoché tutte le frange ad oggi disperse della sinistra di alternativa e di classe italiana: esponenti di partiti e gruppi politici, del mondo associativo e sindacale, intellettuali e militanti, compagne e compagni “senza tessera”, generazioni diverse. Aggregazione larga e importante perché convocata non sulla base dell’assillo di un “contenitore” che (co)stringa sul terreno politico-organizzativo o anche solo elettorale esperienze e posizioni differenti (come di questi tempi accade), bensì al fine di concentrarsi su un obiettivo concreto e di vitale importanza per tutti: sbarrare la strada per via referendaria a un disegno di sostanziale ridimensionamento politico e istituzionale degli spazi democratici nel nostro Paese. Per così dire una sinistra plurale “al lavoro”, per l’occasione guidata da un gruppo di giuristi e costituzionalisti: presenze autorevoli, di garanzia. Nei giorni passati abbiamo avuto modo di leggere contributi significativi che hanno chiarito i punti essenziali, sul piano tecnico-operativo oltre che politico, dello scontro in atto. La relazione introduttiva presentata da Alfiero Grandi nella riunione dello scorso 30 gennaio, ora disponibile sul sito del Comitato, ha fornito di essi un’esaustiva sintesi. Per avere ragguagli sul merito e nel dettaglio, rinvio quindi alla suddetta relazione (oltre che ai contributi, tra gli altri, di Domenico Gallo, Gianni Ferrara, Massimo Villone, Gustavo Zagrebelsky, Gaetano Azzariti). Qui vorrei soffermarmi su un unico punto politico, attorno a cui si è specificamente discusso e che a mio parere è decisivo ai fini di un esito vittorioso di questa importante contesa istituzionale e politica.
Grandi ha giustamente tenuto a precisare che per opporsi proficuamente allo stravolgimento della Costituzione nata dalla Resistenza e al deperimento della qualità del nostro assetto democratico occorre contrapporsi sia alle modifiche proposte dal governo e approvate da un Parlamento screditato con una maggioranza inferiore ai 2/3 (quindi sottoponibili a referendum oppositivo all'indomani della pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale), sia alla legge elettorale in vigore, fatta passare in questo stesso Parlamento a colpi di voti di fiducia. L’involuzione determinatasi su entrambi questi fronti viene infatti a configurare quell'inaudito accentramento di potere destinato a garantire al manovratore l’assenza di sgradevoli “disturbi”: in definitiva, sarebbe la concretizzazione in salsa italiana della famigerata metafora del “pilota automatico”, evocata in sede europea da Mario Draghi ed espressione dell’insofferenza dei “poteri forti” per i lacci e lacciuoli della vita democratica di ciascun Paese membro. Ciò comporta, per chi si oppone a tutto ciò, la necessità di attivare il referendum costituzionale per dire No alle modifiche di Renzi e, insieme, la raccolta di firme per i due referendum abrogativi su altrettanti quesiti già depositati e concernenti la legge elettorale. Con il primo, si contrasterebbe la riduzione del Senato a “dopolavoro di lusso” di sindaci e consiglieri regionali e il contestuale svilimento della Camera a dépendance delle volontà governative; con i secondi, si abolirebbe il meccanismo pesantemente distorsivo della rappresentanza, anch'esso teso a orientare la discussione democratica e i processi decisionali entro canali graditi all'esecutivo. Da questo punto di vista, è chiaro che il tentativo già in atto da parte dell’attuale Presidente del Consiglio di trasformare il merito delle questioni – l’attacco alla Costituzione e alla vita democratica – in un plebiscito pro o contro la sua persona è, come sostiene Grandi, “una trappola mediatica e politica”, un imbroglio da evitare con cura.
Detto questo, c’è comunque un punto tattico oltre che di sostanza politica che dobbiamo guardarci dal trascurare. Non lo ha fatto la relazione di Grandi e altri - come ad esempio Giorgio Cremaschi – lo hanno opportunamente evidenziato. Lo riprendo con parole mie. In estrema sintesi, sarebbe sbagliato cedere ad una tentazione illuministica e condurre la campagna referendaria restando all'interno di un ambito strettamente tecnico/giuridico: di più, incentrare l’argomentazione sul filo dei principi e delle procedure, esclusivamente a difesa della qualità della democrazia. Beninteso, una tale argomentazione è giusta e necessaria, ma non sarebbe sufficiente a vincere: occorre anche far irrompere nel vivo della contesa la denuncia del massacro sociale in atto, coinvolgendo il grosso del corpo sociale (anche di quella parte di ceto popolare che, come riferiscono i politologi registrando la composizione dei flussi elettorali, non vota a sinistra ed anzi guarda oggi a destra). La denuncia dell’accentramento del potere politico-istituzionale deve esplicitamente coniugarsi con una forte denuncia dell’attacco al lavoro e allo stato sociale. Da questo punto di vista - e solo da questo punto di vista, che è agli antipodi di quello di Renzi - ha un senso parlare di “politicizzazione” della campagna referendaria. C’è in tale esigenza, oltre a una questione di sostanza politica, anche una valenza squisitamente tattica: in un Paese cloroformizzato sul piano dei valori e delle culture politiche, regredito quanto a consapevolezza e coscienza civile, non è detto che prefigurare la scena di un “uomo solo al comando” possa essere di per sé garanzia di largo consenso. Anzi, ciò potrebbe non risultare per molti uno spauracchio: a meno che non sia nominato il disastro sociale che quell’ ”uomo solo al comando” potrebbe produrre a sua discrezione sul piano dei bisogni primari, approfondendo la crisi in cui la parte maggioritaria della popolazione è già precipitata. Va insomma ad ogni momento ribadito che la qualità della democrazia influisce e potrà influire pesantemente sulla qualità della vita delle persone in carne ed ossa.
Sulla scena della campagna referendaria deve campeggiare la denuncia a gran voce dell’involuzione sociale del nostro Paese. Va ricordato ad esempio il drammatico allarme lanciato dall'Ufficio Parlamentare di Bilancio – non dunque da qualche bolscevico in libera uscita – secondo cui, sulla base di dati Eurostat, il 7,1 per cento degli italiani (qualche milione di persone) rinuncia a curarsi. Va ricordato che tale percentuale sale al 15 per cento se si considera il 20 per cento più povero, a riprova che tale rinuncia ha a che vedere con il reddito percepito; che tutto ciò è determinato dal vertiginoso aumento dei ticket (più 33 per cento negli ultimi quattro anni), dalla lunghezza delle liste d’attesa, dalla distanza dei presidi sanitari; che il degrado del sistema sanitario nazionale in termini di diminuzione dei posti letto e di riduzione del personale è causato dai tagli di risorse operati negli ultimi anni. E va fatto presente che i suddetti dati sono stati aggiornati al 2014 e perciò non hanno tenuto conto dell’ ulteriore ridimensionamento operato con l’ultima finanziaria varata dal governo di Matteo Renzi: quel Matteo Renzi che potrebbe trovarsi domani “uomo solo al comando” e proseguire indisturbato in tale sciagurata opera di demolizione di diritti essenziali. Così possiamo provare a vincere, collegandoci (idealmente e operativamente) con le mobilitazioni del prossimo autunno, che auspichiamo caldissimo e che potrebbe vedere il lancio di altre iniziative referendarie: da parte del sindacato contro il jobs act, nel mondo della scuola contro la recente controriforma, da parte di regioni e ambientalisti contro le trivellazioni selvagge.